La storia delle corse è densa di polemiche, litigi e lotte di potere. Lo è sempre stata, lo è ancora oggi, tanto che un campionato ormai segnato vede nei regolamenti tecnici, nelle carte bollate e nelle decisioni dei giudici l’unico, triste strumento per generare interesse. Eppure basta voltarsi una frazione di secondo verso il passato e si scoprono miriadi di storie toccanti ed emozionanti, capaci di ricordare la vera natura delle corse. Una sfida perenne con sé stessi, le circostanze, il limite del mezzo, che unisce avversari e compagni di squadra in un legame indissolubile, figlio del comune e sprezzante sorriso con il quale ci si beffa della Morte ad ogni curva affrontata a velocità impensabili, ad ogni abbraccio con il guardrail sfiorato per un soffio. La storia di François Cevert e della Tyrrell 006 è una di queste.
LEI, LA VETTURA
La Tyrrell 006 ha racchiusa nella sigla che la contraddistingue tutta la magia di un’era calda, umana, meravigliosa della Formula 1 che fu. Il codice 006 indica infatti sia il sesto telaio prodotto nella breve storia – in quel momento – del Costruttore britannico, sia la prima sigla di una vettura prodotta in più esemplari. Dall’introduzione della Tyrrell 001 a fine anni ’60, infatti, Jackie Stewart e i suoi compagni di squadra corsero su soli cinque telai, ognuno unico e dotato via via di significative evoluzioni, tanto che il campione scozzese corse tutta la vincente stagione 1971 e gran parte del 1972 al volante dell’esemplare 003, di gran lunga il suo preferito. Tutte queste vetture nascono dalla stessa, geniale intuizione di Ken Tyrrell, il boscaiolo ( soprannome dovuto alla sede della scuderia situata nei capannoni dell’azienda di lavorazione del legno familiare). Scottato dal divorzio con la Matra, fornitrice del solo telaio con cui Stewart si era laureato campione del mondo nel 1969 e desiderosa di produrre la totalità della vettura, Ken non demorde, decidendo di compiere il grande salto: costruire una vettura di F1 tutta sua. Il boscaiolo contatta Derek Garner, un brillante ingegnere con il quale ha collaborato nella realizzazione della trazione integrale per l’avveniristica Matra MS84, e gli affida un compito tanto sbrigativo quanto titanico: costruire una vettura robusta, semplice da riparare, agile e veloce. Il motore sarà il mitico Ford Cosworth DFV (3000cc aspirato V8, circa 450cv) accoppiato al cambio Hewland, ma per il resto è tutto nelle mani dell’ingegnere inglese. Il quale, sistematosi nella casupola degli attrezzi del suo giardino per mantenere la segretezza, riceverà un solo aiuto: un pomeriggio con il mitico Jackie Stewart. I due s’incontrano il 23 marzo 1970, sistemano la posizione di guida e conversano riguardo le preferenze di bilanciamento dell’asso scozzese. Non si rivedranno sino all’assemblaggio finale della vettura. Il lavoro solitario di Garner è miracoloso: la vettura, dopo un breve svezzamento, si rivela agile, veloce, perfettamente bilanciata, potente e semplice da portare al limite. Proprio come desiderato da Stewart, che vinse il mondiale 1971 grazie alla 003, leggermente allungata nel passo rispetto alla 001 e dotata di modifiche importanti a muso, monoscocca e prese d’aria.
La 006 è concepita, al contrario, per combattere lo strapotere della Lotus 72, dominatrice del mondiale omonimo assieme al giovanissimo Emerson Fittipaldi. Garner, forte di un DFV sempre più potente, punta tutto su due elementi in netto contrasto ai punti di forza della creatura nero-oro di Colin Chapman: il passo corto, che innervosisce la vettura nel veloce ma garantisce grande agilità, e l’assoluta affidabilità del pacchetto. Altre novità di rilievo rispetto alle progenitrici sono i radiatori laterali (principale innovazione della 72), i freni e le molle entro-scocca (da cui le caratteristiche prese d’aria poco dopo il muso) e un'aerodinamica maggiormente raffinata, soprattutto all’anteriore (al posteriore, per nostra fortuna, il gruppo motore-cambio rimane completamente nudo). La monoposto centra tutti gli obiettivi prefissati, rivelandosi solo a tratti veloce quanto la Lotus ma molto più affidabile dell’avversaria, il che regala a Stewart cinque vittorie e il terzo titolo iridato.
LUI, IL PILOTA
Albert François Cevert nasce a Parigi il 25 febbraio 1944. Figlio di un gioielliere ebreo, Charles Goldenberg, assume assieme ai due fratelli il cognome della madre per sfuggire alle persecuzioni naziste. La famiglia di Cevert, estremamente benestante, terminata la guerra garantisce ai tre ragazzi un’ottima istruzione. Il giovane François, talentuosissimo nel suonare il pianoforte, cresce tra Parigi e Vaudelnay, un minuscolo paesino della Loria nel quale i genitori pianificano di ritirarsi durante la pensione. Una volta contratto l’esaltante morbo della velocità, complice il fidanzato della sorella, il famoso pilota Jean-Pierre Beltoise, François si iscrive al corso di guida sportiva presso il Circuito di Montlhéry. Mostra subito ottime doti, tanto che la carriera nelle formule minori è breve e folgorante. Dall’esordio nelle corse datato 1964 all’approdo in Formula 1, con Tyrrell nel 1970, passano infatti poco meno di sei anni. Il giovane francese diventa subito una figura di spicco del paddock: è gentile, affabile, si veste elegantemente e i suoi occhi blu attirano stuoli di ragazze adoranti e, molto spesso, donne addirittura più famose di lui, tanto che si presenta ad un GP accompagnato da Brigitte Bardot. Il ragazzo è anche terribilmente veloce: non quanto il suo mitico compagno di squadra, Jackie Stewart, ma abbastanza da cogliere la prima vittoria nel 1971 al Watkins Glen. Nel 1972 subisce, assieme a tutto il team Tyrrell, lo strapotere Lotus, ma punta a riscattarsi nel 1973, forte della nuova 006.
LA LORO STORIA
In realtà la storia di François e la 006 non è una storia a lieto fine, né tantomeno di successo. Le ragioni sono fondamentalmente due: quando non si rompono (ossia spesso), le Lotus di Fittipaldi e Peterson sono semplicemente più veloci, tanto che l’asso svedese ottiene nove pole position al termine della stagione 1973. Quando invece sono davanti le monoposto blu, Cevert pecca ancora d’esperienza nei confronti di uno Stewart all’apice della carriera. Finisce sei volte secondo e sempre a breve distanza dallo scozzese, ma non cova alcun risentimento. Anzi, tra i due il rapporto è magnifico, tanto che François vede in Jackie un mentore e in Helen, la dolce moglie dello scozzese, una sorella maggiore con la quale confidarsi nei momenti di solitudine al di là dell’oceano.
Cevert non sa, come quasi chiunque, della scelta di Jackie Stewart di ritirarsi a fine stagione; il campionissimo, d’accordo con Tyrrell, regala sempre più consigli al francese, condividendo i segreti più intimi della sua guida. François è infatti destinato, a sua insaputa, ad assumere il ruolo di prima guida nel team britannico. Cevert è talmente all’oscuro dei piani da intavolare con grande orgoglio una trattativa per il 1974 con un signore emiliano dagli occhiali scuri, il quale lo vuole assolutamente alla guida delle sue Rosse: Enzo Ferrari. Il francese rivela a Stewart la possibilità di un approdo a Maranello alle Bermuda, tra il Gran Premio del Canada e l’ultimo appuntamento del 1973, la corsa al Watkins Glen. François, infortunatosi alla caviglia a Mosport, trascorre assieme a Jackie ed Helen una settimana di relax assoluto ai Caraibi, regalando una sera all’intero resort un breve concerto privato di pianoforte, durante il quale allieta gli astanti con una perfetta esecuzione della Sonata n°8 in Do Minore di Beethoven.
Stewart, irremovibile nella decisione di non rendere pubblico il suo ritiro, tenta di convincere François a rimanere alla Tyrrell, sostenendo con l’amico che ‘le cose si sistemeranno in futuro’. Probabilmente Cevert gli crede, ma non importa: è un campione in erba e, che accetti o meno l’offerta del Drake, negli Stati Uniti vuole vincere. Jackie è matematicamente campione, ormai è il suo turno e, tra l’altro, quella dello Stato di New York è la sua pista. Lì è il più forte. Il sabato, durante le prove, comincia a girare sempre più veloce. Mancano due turni: un primo al massimo delle sue possibilità, il secondo forte dei consigli di Jackie, come al solito pronto a regalargli qualche chicca prima dell’ultimo run. Una delle quali sarebbe affrontare il complesso Bridge in quinta, portando in curva meno velocità ma evitando che, complice il passo corto e i giri più alti dovuti alla quarta marcia, la 006 si scomponga nel veloce. François spinge, spinge sempre di più. Arriva alla curva Bridge. Mantiene la quarta, vuole essere un fulmine. Passa sopra una cunetta. La monoposto scarta, s’imbizzarrisce. Piega verso destra, si schianta sul guardrail, rimbalza in direzione opposta puntando alle lame di metallo a sinistra del tracciato, dove si infila a velocità folle.
In un attimo François non c’è più. Non c’è il suo sorriso, non ci sono i suoi occhi, il suo talento si è disperso nel vento. C’è solo Helen, distrutta mentre recupera i suoi oggetti nella camera d’albergo, priva del più grande amico tra i cinquantatré colleghi del marito visti morire dal 1963, e c’è Jackie, che sogna Cevert ancora oggi. A volte ci parla, altre piange in silenzio pensando al consiglio non dato.
Mattina di Natale 1973: la famiglia Stewart, riunita sotto l’albero nella casa di Begnins (Svizzera), sta scartando i regali. Ci sono Jackie, Helen e i due figlioletti. Mark, il più piccolo, qualche giorno prima ha avanzato una strana richiesta alla madre: accompagnarla a comprare un regalo per i suoi genitori, i quali, secondo lui, ne ricevono sempre troppo pochi. Ha soli cinque anni, non sa leggere, ma ricevuta una piccola mancia entra in un negozio di dischi e sceglie quello dalla copertina con il disegno migliore.
Qualche mese prima, alle cascate del Niagara, François Cevert aveva promesso alla coppia che, dovunque i futuri viaggi l’avessero portato, non si sarebbe mai scordato d’inviare una cartolina.
Jackie ed Helen scartano assieme il dolce pensiero del figlioletto, pronti a scoprire di quale disco si tratti: è la Sonata n°8 in Do Minore di Beethoven.
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