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Immagine del redattoreLuca Ruocco

McLaren: Storia di una Rinascita


Motorsports Photographer / Shutterstock.com

Il sorriso amaro di Carlos Sainz, secondo a Monza per quattro miseri decimi, affonda le radici in un passato ben più lontano rispetto alla folle mezz’ora precedente. Perché se nella vittoria di Pierre Gasly il caso, la fortuna o la Dea Bendata – datele il nome che preferite – ha oggettivamente giocato un ruolo fondamentale, la piazza d’onore dello spagnolo, al contrario, spettava di diritto alla monoposto numero 55. Era già color papaya ben prima che Magnussen parcheggiasse la vettura nei pressi della pit-lane, innescando la concatenazione di eventi che ha portato alla clamorosa vittoria Alpha Tauri.


È proprio nella fastidiosa convinzione di essere vittime di un destino alquanto beffardo, comune a qualunque uomo McLaren nonostante il secondo posto, che si può notare l’ultimo, esaltante gradino di una risalita difficile, a tratti spaventosa. Quante analisi economico-prestazionali, quante interviste a campioni del passato si sono susseguite a fine 2018 quando, orfana di Alonso, la scuderia sembrava sull’orlo di un precipizio denso di ultime file e arrivi a punti miracolosi? Nessuna previsione, per quanto esperta, poteva immaginare Carlos Sainz – ai tempi scaricato senza tanti complimenti da Renault – rammaricarsi per una vittoria sfiorata, dopo una corsa passata a mettere in riga chiunque tranne Hamilton.


La crisi McLaren, sia essa terminata o meno, ha radici lontane e molteplici, come ogni crisi che si rispetti. Il picco prestazionale 2007-2008, con le monoposto di Woking a livello delle iridate Ferrari, fu legato a doppio filo alla Spy Story, la squallida vicenda che vide Nigel Stepney, capo-meccanico a Maranello, consegnare fotocopie del progetto 2007 ai sottoposti di Ron Dennis. Al di là del danno d’immagine e di quello sportivo (tutti i punti della classifica Costruttori vennero annullati), il gruppo McLaren pagò un immensa penale economica: ai 100 milioni di dollari di multa si aggiunsero le svariate decine di milioni perse a causa dello scarsissimo piazzamento nella classifica a squadre. La perdita espose il gruppo ad una tempesta finanziaria proprio nel momento peggiore, ossia la nascita di McLaren Automotive, branca impegnata nelle vendita di supercar concorrenti di Ferrari, Porsche o Lamborghini.


In realtà dal punto di vista tecnico l’azienda rimase solida per lungo tempo. Le prime GT, come la Mp4-12C, furono acclamate tanto dalla critica quanto dal pubblico, e la scelta di utilizzare integralmente carbonio nella costruzione del telaio assicura ancora oggi guidabilità e prestazioni ai massimi livelli. La scuderia di Formula 1, seppur lontana dai fasti degli anni ’80 (dal 1999 al 2020 l’unico mondiale vinto risale al 2008, grazie ad Hamilton campione tra i piloti), proseguì ad altissimi livelli tecnico-organizzativi fino al 2012.



Il grafico dimostra (grazie ai punti delle stagioni 2008 e 2009 convertiti al sistema in vigore dal 2010) un’eccezionale costanza di risultati nell’era Hamilton. La Mp4-27, ultima vettura di Woking pilotata da Lewis, contese per gran parte del campionato la palma di monoposto più veloce alla futura iridata Red Bull RB8; il campione inglese, e con lui Button, patirono principalmente continui problemi d’affidabilità nella rincorsa al titolo. Il gruppo tecnico decise che per il 2013, ultimo anno dell’era dei V8 aspirati, fosse necessaria una vera e propria rivoluzione per puntare al titolo. La Mp4-28, dotata per esempio della complicatissima sospensione pull-rod all’anteriore, si rivelò un vero e proprio fiasco quasi impossibile da mettere a punto. Da lì in poi la struttura tecnica, organizzata secondo uno schema a matrice risalente ai primi anni 2000 (ogni gruppo di lavoro comunicava esclusivamente con i propri superiori, disegnando la vettura quasi a compartimenti stagni), mostrò tutte le sue carenze.


Nel 2014 la Power Unit Mercedes, largamente superiore a tutte le altre, permise un discreto piazzamento in classifica costruttori (5°), mentre il ritorno di Alonso dal 2015 coincise con una vera e propria rivoluzione copernicana per la compagine di Woking. Ron Dennis concluse infatti la collaborazione con la Stella a Tre Punte per intraprendere un percorso verso i fasti dell’era Senna assieme alla Honda, interessata ad entrare nuovamente nel Circus dopo l’avvento del motore ibrido. Secondo l'algido Dennis, per ritornare al vertice della Formula 1, una delle conditio sine qua non era poter disporre di una Power Unit ufficiale. Fu proprio la struttura tecnica McLaren il principale tallone d’Achille della partnership anglo-nipponica: gli ingegneri di Woking, convinti del proprio operato, non diedero mai sufficiente ascolto alle richieste dei colleghi di Sakura. La filosofia size zero, ossia la ricerca ossessiva di un posteriore ultra-rastremato, ingigantì enormemente i problemi di raffreddamento dell’unità giapponese, già di per sé obbligata ad una faticosa rincorsa riguardo l’interazione tra i motori elettrici, la qualità della combustione e le dimensioni del turbo.


Le famosissime sparate di Alonso di certo non aiutarono, ma non furono mai deleterie quanto la convinzione, diffusa tra gli ingegneri inglesi, che il telaio delle McLaren-Honda fosse veramente tra i migliori in circolazione. In realtà sia la meccanica che l’aerodinamica non raggiunsero mai i livelli di Mercedes, Ferrari o Red Bull, garantendo buone doti d’agilità ma altrettanta resistenza aerodinamica. La prova del nove arrivò nel 2018: montata la Power-Unit Renault, il progetto si rivelò anni luce lontano sia da quello Red Bull che, soprattutto, dal ben più abbordabile Renault.


Dietro le quinte intanto si consumò una silenziosa – oltre che decisamente dispendiosa – rivoluzione: Ron Dennis fu allontanato definitivamente da quella che, a tutti gli effetti, era e rimane la sua creatura. Il fondo sovrano del Bahrain e Mansour Ojjeh, principali azionisti del gruppo, individuarono in Zak Brown la figura adatta a risollevare le sorti del team di F1, oltre che continuare ad espandere il business delle vetture stradali.


Sarebbe semplice premere il tasto avanti veloce e catapultarsi direttamente alla fantastica corsa di Sainz a Monza. Al contempo però si perderebbe completamente la morale fondamentale della storia. Il manager americano ha potuto godere di fiducia incondizionata, nonostante un 2018 fallimentare e una gestione GT complicata, principalmente a causa della concorrenza pressoché imbattibile di Ferrari e Lamborghini. Il tempo concessogli ha però permesso un’analisi approfondita degli interventi necessari a Woking. L’assunzione di Andreas Seidl - ex-Porsche - come direttore della scuderia di F1, e di James Key da Toro Rosso come direttore tecnico hanno rinvigorito un ambiente spento da tempo. Peter Promodrou, a capo del design della monoposto dal 2015 dopo una lunga esperienza in Red Bull, ha scatenato tutta la sua fantasia sulla monoposto 2019, e i risultati di una diversa gestione delle risorse già presenti, oltre a qualche innesto mirato, ha subito dato i propri frutti.


Sainz e Norris si sono perfettamente inseriti in un clima giovane ed ambizioso; i risultati sono semplice conseguenza del lavoro calmo, organizzato e nuovamente rispettoso dei lunghissimi tempi necessari a riportare una monoposto al vertice della piramide prestazionale. Alcune aree della MCL35 – la vettura 2020 – sono fortemente ispirate alla concorrenza, altre come i bardgeboards presentano spunti originali. Le strategie di gara sono spesso lineari ed efficaci, mentre i pit-stop richiedono ancora importanti miglioramenti.


Insomma, il cantiere McLaren procede spedito. Correre un’intera corsa a ritmo podio, al di là della vittoria mancata, era uno dei tasselli ancora mancanti. Il percorso però è palesemente quello vincente, ed una corretta integrazione della Power Unit Mercedes, la migliore sulla piazza, dal 2021 non potrà che aiutare.


La rinascita sembra completata. Ora, assieme a Daniel Ricciardo, si tratta di cominciare a giocare coi grandi. Saranno pronti a Woking?

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