Oggi, ad Abu Dhabi, è stato il turno delle prime forme di saluto: i caschi dei piloti. Vettel ha presentato una versione completamente cromata dell’elmo che lo accompagna in Ferrari sin dal Gran Premio d’Australia 2015, sul quale sono incisi, tra le sfumature tricolore e l’albo d’oro degli anni in Rosso, i ringraziamenti ai tifosi, a Maranello e alla squadra stessa. Leclerc ha modificato il disegno del suo casco ispirandolo a quello del compagno di squadra e aggiungendo la scritta ‘Danke, Seb’. Un segno del rispetto reciproco e dell’armonia che senza dubbio vige tra i due fuori pista; Vettel, forse, avrebbe preferito ricevere la scia pattuita a Monza lo scorso anno, ma non è certo il faticoso rapporto tra Charles e Sebastian a dominare la scena ad Abu Dhabi. Saranno i messaggi d’amore e i ricordi felici, gli applausi all’uscita dal box domenica e i team radio a fine corsa a catturare l’attenzione. Superficialmente, Vettel e la Ferrari si lasceranno con un sorriso.
La luce soffusa del tramonto emiratino non può però cancellare la malinconia che ha accompagnato per tutto il 2020 il tedesco. Ogni intervista, a parte quelle successive al Gran Premio di Turchia, ha contenuto una traccia di apatia, un dolore profondo che si lasciava scorgere quando a una risata o un sorriso seguiva il ritorno di un tratto del viso stanco, rassegnato. La SF1000 ha di certo contribuito a rendere tutte le sessioni di questo campionato un supplizio, ma la sofferenza di Sebastian ha radici più profonde, che si intrecciano in un connubio inscindibile con il buco nero dal quale, faticosamente, la Ferrari sta provando a rialzarsi. Un vortice di errori progettuali, instabilità dirigenziali e risultati via via sempre peggiori nel quale il Cavallino Rampante e Vettel sono precipitati uniti, trascinandosi alternativamente l’un l’altro sempre più a fondo.
Sebastian ha vinto molto in Ferrari. Ha colto occasioni, inventato sorpassi al limite del credibile, siglato pole position dialoganti, millisecondo per millisecondo, con un genere di perfezione comune a pochi altri piloti nella storia. Eppure, dai cancelli di Maranello non è mai uscita una monoposto indiscutibilmente da mondiale. Per due autunni di fila (nel 2017 il motore, nel 2018 il telaio), alle Rosse è mancato il guizzo tecnico finale. Quello sviluppo indovinato capace di esaltare Vettel o di non lasciarlo a piedi, i centesimi necessari a spaventare Hamilton e gli ingegneri Mercedes, instillando nella scuderia argentata il dubbio di trovarsi davanti al presagio di una sconfitta inevitabile. Non sono di certo mancati altri tipi di criticità, come la gestione del licenziamento di Raikkonen a Monza nel 2018; diversi tra questi, però, sono legati alla prematura scomparsa di Sergio Marchionne, la cui importanza fu terribilmente sottovalutata dall’opinione pubblica. Una monoposto indiscutibilmente pari alle Frecce d’Argento, soprattutto nel finale dei campionati in questione, avrebbe nascosto e forse evitato tensioni dirigenziali e pasticci sportivi. Avrebbe, in particolare, rassicurato Vettel, esaltandone capacità, concentrazione e voglia di combattere.
I detrattori, ma nel profondo del cuore anche i sostenitori più accaniti di Sebastian, potrebbero controbattere facilmente a una tesi del genere. Evitando di citare la sfilza di errori del numero 5 da Hockenheim 2018 in poi, alcuni goffi, altri madornali, è lecito chiedersi se, anche a fronte di una Rossa senza sbalzi competitivi, Vettel avrebbe retto la pressione. Non lo sapremo mai, e non tanto a causa di confronti con i compagni di squadra, valutazioni di strambi indici di pilotaggio o discutibili visioni personali. La causa è una sola, e quasi banale: la più grande colpa di Vettel si fonde in un legame indissolubile con le difficoltà della Scuderia. Anche quelle degli ingegneri. Negli anni potenzialmente iridati, Sebastian ha faticato terribilmente a prendere per mano la squadra, a rappresentare un punto di riferimento. I suoi testacoda, i suoi tamponamenti e le sue ruotate, piuttosto che per il singolo episodio sono gravi per la crepa che hanno creato in un’ambiente candidato all’iride. Come spesso ricorda il numero 5, l’errore di Hockenheim è stato una piccola sbavatura dalle conseguenze enormi: Vettel non lo ammetterà mai, ma in quel momento – almeno secondo chi scrive – il suo ruolo come faro indiscusso del Cavallino è venuto meno. Sebastian si è perso nelle criticità, nei momenti di tensione assoluta, nelle sfide che un campionato conteso con avversari di eccellente calibro inevitabilmente comporta.
Mentre Vettel affondava, la Ferrari non è stata capace di tendergli la mano. Quando però è stata la Rossa ad entrare in acqua inabissandosi ancora più velocemente, il tedesco non ha saputo dare un colpo di reni per riportare a galla entrambi. Il circolo vizioso è continuato senza sosta, per terminare in una stagione densa di recriminazioni e silenti attacchi incrociati.
I sei anni di Seb in Ferrari non hanno raggiunto i traguardi prefissati. Tanto il pilota quanto la Rossa, però, hanno sperimentato a proprie, dolorosissime spese un concetto fondamentale, da tenere ben presente nei rispettivi futuri.
Nessuno si salva da solo.
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