I guardrail. A me, di Monaco, hanno sempre colpito i guardrail. Creano una specie di tunnel a metà nel quale sfrecciano le vetture, più basse di loro che di certo alti non sono. Sembrano comparse, eppure sono attori protagonisti. Vinci solo se li sfiori, più spesso li tocchi e finisci fuori. Ti accompagnano lungo tutto il tracciato – non da sempre, arrivarono a coprire l’intera pista solo negli anni ’80 – partecipando con il loro grigio alla bozza di colori dove predominano l’azzurro del mare ed il bianco degli yacht. A volte ti abbracciano, e magari cambiano la tua carriera: chiedere a Max Verstappen, che dopo il botto costatogli le qualifiche nel 2018 mise la testa a posto. Altre volte se ne stanno lì, apparentemente in disparte, mentre in mezzo a loro vengono scritte pagine di storia memorabili.
Il Gran Premio di Monaco non è una corsa qualunque. È l’essenza della F1, la gemma del calendario iridato. Per nulla intaccata dalla noia imperante durante la corsa, quasi sempre decisa al sabato durante le qualifiche. Anzi, forse la magia risiede proprio nei 75 secondi scarsi a disposizione dei piloti per giocarsi l’intero weekend di gara. Via le termocoperte, un passaggio nella pitlane tanto angusta, una tornata per mantenere le gomme in temperatura. Poi si parte. Sainte Devote, Massenet, Casino, Mirabeau alto, tornantino del Loews, Mirabeau basso, Portier, tunnel, chicane, tabaccaio, piscine, Rascasse, Anthony Noghes. Mai un respiro. Tutto in sequenza: o entri in un’altra dimensione, come misticamente descritto da Senna, o sbatti. Solo dei folli si coricano in un proiettile, con la schiena ad una cinquantina di centimetri dai tombini, per affrontare a 240 chilometri orari la piega delle piscine. O la curva cieca del tabaccaio, dove non sai mai quando frenare né tantomeno cosa troverai dopo aver svoltato l’angolo. E forse poco t’importa, perché qual è la differenza tra una vettura incidentata, il guardrail esterno o la gloria del giro perfetto?
Monaco è di più. Va oltre qualunque tracciato cittadino del Mondiale. La Storia si mescola al glamour. Il tempo diventa elastico: le monoposto paiono fermarsi al tornantino, impegnate in curva che sembra non finire mai. Affrontata dai piloti di tutte le epoche, sempre la medesima traiettoria. Magari è cambiato lo scenario, con i giardini del Mirabeau non più affiancati dalla stazione ma da un Grand Hotel. Eppure tutti i più grandi hanno messo le ruote nello stesso punto, dopo la stessa discesa, avendo già in mente le stesse due curve che porteranno allo stesso tunnel. Luce, buio, luce, porto.
A Monaco non mancano le sorprese. Stupiscono in tanti, i più grandi un po’ di più. Monaco è Senna: sei centri su sette dal 1987 al 1993, con la vittoria del 1988 buttata via per uno stupidissimo calo di concentrazione, dopo un fine settimana letteralmente dominante. Ayrton e la pista del Principato erano una cosa sola, sin dalla celeberrima edizione 1984, quando il brasiliano si presentò al mondo sfiorando il trionfo a bordo di una modesta Toleman domata nel diluvio. Monaco è la Ferrari dell’epopea Schumacher che vince per l’ultima volta nel 2001, quasi che la corsa più bella volesse negarsi ai dominatori del tempo. Passeranno sedici lunghissimi anni prima che Sebastian Vettel, nel 2017, riporti il Cavallino Rampante sul gradino più alto del podio. Monaco è Graham Hill, elegante tanto nei cinque trionfi degli anni ’60 quanto nella mancata qualifica del 1975, a bordo della Lola gestita dal team che portava il suo nome, dopo la quale non corse mai più. Perché Montecarlo sapeva donare dignità anche agli sconfitti dalle pre-qualifiche, eroi nel loro piccolo solo per aver concluso un giro a vita persa nel Principato. Monaco sono Ascari, Fangio e Moss, protagonisti degli albori del mondiale, quando il Gran Premio era lunghissimo, massacrante, affrontato tra balle di fieno, marciapiedi in vista, vetture – non solo da competizione – parcheggiate ai lati del tracciato e tuffi in mare, monoposto compresa. Monaco sono i giri folli di Leclerc lo scorso anno, quando tentò di superare tutti e con qualcuno ci riuscì, fino a toccare il muretto nel tentativo di scavalcare Hülkenberg, per poi compiere un giro su tre ruote di Villeneuviana memoria.
A Monaco ci si riscatta, e spesso lo si fa solo per sé stessi. Per maggiori informazioni rivolgersi ad un certo Michael Schumacher, capace di conquistare una strepitosa Pole Position il 26 maggio 2012, pur sapendo che sarebbe stato arretrato di cinque posizioni in griglia di partenza a causa di un contatto nella corsa precedente. Eppure, il suo sorriso tolto il casco diceva tutto. Raccontava di un Campione che aveva dimostrato al mondo intero di essere ancora il migliore, anche solo per 74 secondi. Anche senza alcuna possibilità di vincere la corsa il giorno seguente.
Monaco è l’assordante rimbombo dell’urlo dei motori dentro al tunnel. È il fiato trattenuto al culmine del Q3. È chiedersi: ma come ha fatto quello lì?
Quando tornerà, sarà ancora più bello.
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