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Immagine del redattoreLuca Ruocco

Senza Rispetto



Sir Jackie Stewart, utilizzando un vocabolo caro ai piloti inglesi dei favolosi Seventies, la chiama Camaraderie. Tradotta in italiano con il cacofonico e desueto ‘cameratesimo’, nell’accezione intesa dall’asso scozzese indica lo spirito di gruppo tipico dei piloti della sua era (1965-1973). In fondo il tre volte campione del mondo vide morire cinquantatré colleghi in meno di dieci anni: è comprensibile che tra i sopravvissuti – nel vero senso della parola – si creasse un legame speciale. Legame che sfociava in un rispetto assoluto tanto fuori quanto, soprattutto, dentro la pista. Una chiusura troppo maschia, una furbata nel gioco delle scie o un fallo di reazione nella maggior parte dei casi avrebbero innescato incidenti dalle conseguenze a dir poco serie. Qualunque azione che oggi rientrerebbe nel calderone, comune a diverse discipline, dell’antisportivo non era semplicemente concepibile. I pochi piloti che ai tempi venivano additati come pericolosi, in realtà al massimo muovevano leggermente la vettura durante un sorpasso. La prassi, nella Formula 1 di oggi.


Forse sarebbe utopistico aspettarsi che la suddetta Camaraderie caratterizzi il paddock del 2020. Lo stesso motorismo non è più lo stesso, basta confrontare i mezzi pesanti delle scuderie di oggi (camion ipertecnologici) con i mini-van della Tyrrell di allora (scuderia campione del mondo costruttori nel 1971). È un peccato ma si può accettare, gli appassionati di Formula 1 hanno girato lo sguardo davanti a scempi ben più gravi. Oltre lo spirito d’appartenenza ad un gruppo elitario, però, esiste un valore ben più importante, sistematicamente insultato fino all’apoteosi della qualifica di Monza: il rispetto.


Il rispetto nelle corse non ha niente a che vedere con il sentimento - pur nobilissimo - che dovrebbe contraddistinguere qualunque competizione sportiva. Lanciarsi a 340 km/h a bordo di un proiettile di 750 kg è un esercizio mortale. Né più, né meno. Serve per caso ricordare che lunedì (120 ore fa, non un secolo) si è celebrato il primo anniversario dalla scomparsa di Anthoine Hubert, e un mese prima il quinto dalla tragedia di Jules Bianchi? Nessuno può negare che il continuo sfiorare la morte sia quanto rende davvero speciale la massima competizione automobilistica al mondo. Nessuno esige sicurezza assoluta. Non fossero pilotate da venti esseri umani unici al mondo per abilità e coraggio, le monoposto di Formula 1 perderebbero qualunque interesse. Altro che Power Unit, ali scariche e bardgeboards. Proprio per questo, però, il rispettare l’avversario assume tutt’altro significato.


L’episodio accaduto oggi a Monza durante le qualifiche è sì figlio delle circostanze (ci torneremo tra un attimo), ma è solo l’ultimo di una preoccupante serie. Avete mai riflettuto riguardo l’assurdità delle lamentele via radio per il mancato rispetto delle bandiere blu? La cantilena ‘Blue flags, blue flags!’ di Sebastian Vettel è famosissima, pur rappresentando nient'altro se non la punta di un iceberg dalle dimensioni mastodontiche. Un tempo era necessario sudare per compiere un doppiaggio. Probabilmente è corretto che sia stata istituita una regola volta a non rovinare la corsa dei più veloci, ma da qui a penalizzare Perez in Spagna perché Hamilton, nel suo doppiaggio, ha perso sei decimi dei venti e passa secondi di vantaggio ne corre di acqua sotto i ponti. Nella Formula 1 del 2020 le vetture doppiate devono semplicemente scomparire, e i loro piloti farsi da parte immediatamente sacrificando la propria gara, evidentemente troppo poco interessante per la TV. Il bello è che i primi sostenitori di questa corrente di pensiero sono proprio, a turno, gli stessi piloti impegnati a giocarsi la vittoria. Non importa se chi viene passato, oltre a subire l’onta del doppiaggio, deve anche perdere una decina di secondi. Conta solo la corsa dei primi.


Potremmo continuare all’infinito con gli esempi del progressivo scomparire di un qualsivoglia codice etico dalle piste del Mondiale. Chi si ricorda Verstappen in Messico lo scorso ottobre, dopo le qualifiche concluse al primo posto, mentre si vanta di aver notato le bandiere gialle causate da Bottas ma di aver ritenuto non fosse necessario rallentare? Come si è potuto penalizzare di sole tre posizioni un campionissimo che insulta un segnale tanto nobile quanto antico, volto a proteggere lui stesso, i suoi colleghi e i volontari (volontari!) che permettono lo svolgimento di un Gran Premio?


Si sapeva sin da giovedì che oggi, a Monza, la ricerca della scia migliore avrebbe creato problemi. Qual è stata, invece, la causa principale del caos avvenuto al termine del Q1? Semplice. La mancanza di rispetto. Il quartetto formato da Ocon, Latifi, Raikkonen e Vettel, tutti a serio rischio d’eliminazione, poteva godere del traino perfetto: Lewis Hamilton. Bastava pazientare, non ammassarsi dopo l’Ascari e ognuno avrebbe potuto giocarsi le sue carte forte di un buon treno di vetture. Cos’è accaduto? L’esatto contrario. Ocon ha scartato Latifi, troppo lento per il suo giudizio, e da lì si è scatenato un inferno di sorpassi. Il risultato? Nessuno ha migliorato il proprio tempo, con Vettel 17° in griglia a Monza. Peggio per loro, si potrebbe dire. In fondo poco cambia, avrebbero potuto benissimo vedersi cancellare un tempo per aver superato i track limits (perché porre erba e ghiaia quando puoi affondare un sensore…), ed è comprensibile non siano state comminate penalità per l’accaduto. I quattro piloti, chi più e chi meno, hanno tutti pagato la scarsa furbizia.


Lo scandalo è che Ocon non sia stato penalizzato per la successiva chiusura su Raikkonen all’uscita della Curva Granda. Una scorrettezza assurda perché reiterata, peggiore della singola mossa di Leclerc su Hamilton nella corsa del 2019 perché avvenuta con le monoposto molto più vicine ma soprattutto in qualifica. A giro perso per chiunque. Cosa voleva dimostrare il francese?


Nel chiudere la porta in faccia rischiando una carambola drammatica, proprio come nel lottare senza ritegno per la miglior scia scordandosi consapevolmente il concetto di sportività, si ravvisa la più grande mancanza della Formula 1 di oggi. Non sono i sorpassi, non è la Ferrari poco competitiva, non è la lotta al vertice mortificata da una Mercedes stellare.


È la sistematica mancanza di rispetto dei piloti verso la pura e semplice magia del proprio lavoro. Qualcuno dovrebbe rendersene conto.

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